
26 Febbraio 2019
Regia: Thomas Stuber
Produzione: Germania, 2018 – 125’ –
Fregati.
Come capita spesso, grazie a una locandina e a dei trailer mendaci, un film ritenuto troppo ostico viene mascherato da commedia romantica scommettendo sui presunti favori del pubblico verso toni leggeri e delicati. Più che di coppiette però, qui si parla di solitudine, eccome.
Christian è un giovane con la faccia ombrosa e il torace da pugile, a giusto un paio di sbagli da compagnie più balorde, comincia l’apprendistato in un enorme supermarket tedesco sotto l’occhio di Bruno, solido sessantenne ormai rodato dalla routine di un ecosistema tratteggiato con le liturgie e gli ampi spazi di una grande Chiesa consacrata al Dio Consumo. Sulle note di Quark e di altre sinfonie viennesi, i bancali e i commessi si scambiano di posto sfilando tra le scansie e i neon che scandiscono le giornate e i turni di lavoro. Cassette, scaffali, calendari e sportelli: ogni cosa è incasellata. Bottiglie, dolciumi, pastasciutta e pescheria sono le contrade in cui si dividono le maestranze, micro comunità di un micro mondo, governato dalle regole del muletto, che si incontra alla macchinetta del caffè. È qui che Christian e Marion si conoscono e si piacciono, ma il loro è un amore difficile, i loro reparti sono troppo diversi.
Nell’anno in cui pure nell’alto dei cieli di Amazon, di Facebook e degli altri nuovi giganti cominciano a sfolgorare bagliori di un prossimo tramonto, ricorrere ancora al supermercato come emblema dell’alienazione e del consumismo potrebbe sembrare fuori tempo massimo, ma proprio mentre si affaccia il sospetto di questo ritardo, il film si apre a una lettura diversa, più attuale, che scavalca l’allegoria per mostrare le nudità di un Re divorato dai suoi figli.
Il retro del negozio è il retro della sua storia, il passato di un’impresa ingoiata da un modello ingordo, a sua volta consumato, digerito, esausto, che per resistere obbliga a vivere al contrario. Nel retro del negozio si butta il cibo in più, si mischia il giorno con la notte, si flirta e si fingono le vacanze. C’è una sequenza, in cui i dipendenti seguono un corso di formazione e prevenzione basato su filmati ironicamente splatter, il tutor ammicca divertito ai suoi uditori perplessi: nel mondo-convenienza anche le componenti drammatiche e irrazionali sono confezionate in appositi spazi. La condizione soffocante e coatta è ripresa dal ripetersi all’infinito dei gesti, delle inquadrature, del motivo quadrato che torna nelle scansie, nei pannelli, nelle piastrelle, nelle fermate degli autobus, che sempre inscatolano le persone e le consegnano a una vita civile mostrata solo per esibire un tempo libero svuotato di senso e condizioni di indigenza nonostante un impiego retribuito.
Perché tutto funzioni, tutti devono piegarsi, ficcarsi nel loro posto, eseguire il loro compito.
Peccato si sia perso di vista che cos’è che doveva funzionare.
Il film si snoda compassato in due ore malinconiche ma mai tristi, ravvivate da qualche tenerezza e da una colonna sonora intrigante che mischia i generi, evocando una pluralità di voci che resta comunque armonica. In accordo con la schematicità che vuole ribadire, il rigore della regia e della composizione prevalgono, e lasciano emergere pulito il tema di fondo, rendendo di fatto superflue le sottolineature della voce fuori campo di Christian, che non fa che rimarcare ciò che le immagini rendono chiaramente.
Tra gli scaffali un Valzer suona la fine di un’epoca, nella penombra si spengono le luci del Grande Impero dove bastava spendere e possedere per sperare di essere felici. In un attimo è tutto un passare, e risacca, e buio.
Il mare, in un supermercato, può essere tutt’altra cosa.